Antonio di Gennaro, Repubblica Napoli del 5 maggio 2016
Per parlare di altre agricolture e altri paesaggi devo lasciare la pianura, troppo gonfia di uomini e città, e varcare la cortina dei Tifatini, sotto le arcate traforate dell’acquedotto Carolino, sino al vasto mare ondulato delle colline del Sannio, che è tutto verde ora, sembrano le highlands scozzesi, in questa primavera matta di pioggia, nuvole e sole. Nel racconto di Manlio Rossi-Doria era questo “l’osso” del Mezzogiorno, contrapposto alla “polpa” delle pianure fertili costiere: le terre difficili dell’esodo, dove la triade millenaria del grano, della vite e dell’olivo non riusciva a garantire altro che sussistenza. Poi le cose sono cambiate, ed è di questo, della “rivincita dell’osso”, che vorrei ragionare, qui a Guardia Sanframondi, con Titina Pigna, che del Professore è stata allieva, ed è ora la prima vicepresidente donna della Guardiense, la cooperativa viticola diventata una storia di successo.
Titina mi racconta di quando giovane studentessa accompagnò Rossi-Doria a Melfi, dove il Professore aveva trascorso gli anni del confino: volevano conferirgli la cittadinanza onoraria, e lui accettò, a patto che venissero i ragazzi del Centro di specializzazione di Portici, ed allora li caricarono tutti sui gipponi della forestale, e dormirono nelle aziende sperimentali della Regione Basilicata. Poi, nel 1983 al Formez, Titina organizzò una delle ultime memorabili lezioni del Professore sulle politiche per il Mezzogiorno, andò a prenderlo a Piazzetta Nilo, lui aveva passato la notte a scrivere appunti su un quadernetto, era una celebrità, aveva fatto la politica agraria del paese, ma si emozionava ancora a insegnare, temeva di non essere all’altezza, nell’intervallo telefonò al figlio Marco per dirgli che stava andando bene.
Dal castello medioevale di Guardia tutta la valle ai piedi del Taburno ci è davanti: ora il sole illumina l’onda delle colline, che sfuma progressivamente nel cinerino, tutta ricamata di vigneti, siepi, oliveti, piccoli boschi: luoghi che quanto a suggestione poco hanno da invidiare ai più celebrati paesaggi umbri o toscani, anche qui il mosaico dei campi è quello dei dipinti rinascimentali, con tutta la nobiltà di una storia di lunga durata. E anche qui, dietro la bellezza si cela la fatica, la lotta infinita con la precarietà. Il problema è che la terra è spezzettata, le aziende sono piccole, troppo piccole, un ettaro o meno. Negli anni ’50 si faticava davvero per campare, l’uva la compravano i commercianti che venivano dalla città, aspettavano che rimanesse sui cortili per giorni, e iniziasse a inacidire, per pagarla meno. Allora, nel 1960, la decisione di trentatré viticoltori di mettersi insieme, tirar su la cantina, e nacque la Guardiense. C’era da rischiare, la società era a responsabilità illimitata, si garantiva col poco che si aveva. Il papà di Titina, Rodolfo, era un uomo di 35 anni, benestante, con dieci ettari di terra: quando la ragazza gli chiese perché lo facesse, le rispose che il benessere non si difende ma si diffonde. Titina questa cosa non l’ha dimenticata, tutta la vita l’ha dedicata al Mezzogiorno, a un’idea di riscatto di queste terre al margine.
Oggi la Guardiense è una realtà importante della vinicoltura italiana, con circa mille soci, mille e cinquecento ettari di vigneto, tre milioni e mezzo di bottiglie l’anno, impianti tecnologici all’avanguardia e una passione per la sostenibilità: l’energia che serve per far funzionare la cantina viene dai pannelli solari; l’acqua è depurata, torna pulita al fiume, ed è tutto un modo di produrre stando leggeri sulla terra e sull’ecosistema.
I vini, poi, sono eccezionali. La falanghina “Janare” ha ricevuto nel 2015 i tre bicchieri del Gambero Rosso, per una bottiglia che porti a casa con quattro euro e mezzo, ed allora anche il valutatore ha dovuto dismettere ogni algido distacco, finendo per scrivere nella scheda del vino che il rapporto qualità/prezzo è “commovente”. Perché la Guardiense è una cantina sociale nel senso vero del termine, e la sfida di Riccardo Cotarella, l’enologo celebre che la segue da anni (è stato presidente del comitato scientifico del padiglione del vino ad EXPO 2015), è quello di consentire ad ogni famiglia di mettere in tavola con una spesa modica un grande vino, che come dice Gianni Mura, faccia sentire gli angeli cantare. Oltre alla falanghina c’è l’aglianico, il piedirosso, gli spumanti e i passiti, e il metodo è quello di un controllo completo del processo, il conoscere ad uno ad uno i mille vigneti della cooperativa, con la loro particolare combinazione di suolo, esposizione, microclima; di curare ogni grappolo nella maniera giusta, dal campo alla cantina. La vinificazione poi, avviene a basse temperature, così si tiene al minimo il bisolfito, mentre esplode la sinfonia degli aromi.
Il successo della Guardiense è stato quello di fare del mosaico spezzettato di piccoli vigneti, una macchina formidabile che produce qualità, ora apprezzata a scala mondiale. Nel far questo, il paesaggio rinascimentale della valle rinasce, anche se non mancano i problemi, perché pure qui, in questa che è la green belt della grande area metropolitana, l’urbanizzazione arriva, dopo aver consumato la pianura, con ritmi aggressivi, e nel vigneto è un fiorire di seconde case, ogni sindaco vuole il suo insediamento produttivo, il suo campo da golf. Una follia, perché sono i vigneti verdi l’industria e il motore di queste aree, e appare francamente inutile inseguire sogni già falliti altrove. E perché, alla fine, la collina è un sistema fragile, come ha ricordato l’alluvione terribile dello scorso ottobre, che ha spazzato come una furia il fondovalle e i primi versanti, sommergendo di fango vigneti, case e cantine. In questi paesaggi delicati, tutta la nostra energia dovrebbe essere rivolta alla manutenzione del territorio, alla cura dei suoli e delle acque, della fragile rete infrastrutturale, piuttosto che all’aumento dell’impermeabilizzazione, ma è una cosa dura da capire.
Ce la farà “l’osso” a conservare i suoi paesaggi storici, diventati nel frattempo macchine produttive formidabili? E’ difficile dirlo: i viticoltori della Guardiense indicano una strada differente, che è quella di riammagliare e restituire senso al mosaico delle terre, utilizzando le tecnologie più avanzate, e in questo modo creare conoscenza e lavoro, nella valle dei grandi vini, dove il sogno riformatore del Professore vive ancora.